Vi sono nella memoria di ogni uomo certe cose che non a tutti confida, ma solamente agli amici. Ve ne sono anche certe altre che egli non confida nemmeno agli amici, ma solamente a se stesso, e anche a se stesso le confida in gran segreto.Ma ve ne sono, infine, delle altre ancora, che l’uomo ha paura di confidare persino a sé medesimo.” Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo
Ci sono dei luoghi, dentro di noi, nei quali convivono vicine, una accanto all’altra, tutte le esperienze che una vita intera ha raccolto lungo il suo percorso. Lì si nascondono, frammentate, le estati magiche della giovinezza, i viaggi solitari della maturità, le sacre promesse non mantenute di quando si credeva all’eternità di un amore. Lì si trovano, senza un ordine logico e consequenziale, i filamenti di un passato remoto che il tempo, con il suo corso, ha sedimentato nelle zone buie della nostra interiorità. Se si potesse intraprendere un viaggio in queste regioni della nostra anima, esse ci apparirebbero probabilmente come le immagini che Gabriele Casale ci presenta: lastricate di frammenti diversi per forma e colore, delineate da particolari figurativi che, seppur definiti singolarmente, esprimono un vago inventario di elementi anatomici, cromatici e sinestetici diversi. Questi mosaici, composti nel segreto della nostra intimità, sembrano testimoniare ciò che scriveva il poeta russo Brodskij:“La memoria ha in comune con l’arte la tendenza a selezionare, il gusto per il dettaglio”[1]; lo stesso diletto che ci procura il ricordo di un particolare di un volto, la sfumatura tra le pieghe di un sorriso, la semplicità di uno sguardo che sembrava antico quanto il mondo.
Ma ricordare vuol dire innanzitutto dimenticare il presente, prendere il largo dalla nostra indaffarata vita quotidiana per addentrarci nelle terre selvagge dell’oblio. Le immagini che affiorano dagli strati profondi del mare inconscio, sembrano essere governate da una corrente puramente casuale; la stessa con la quale Gabriele, dopo aver strappato in tanti pezzi i disegni eseguiti nel periodo accademico, ha deciso di assemblarli nelle composizioni dei collage presenti in mostra. Tale gesto di selezione accidentale dei lacerti desunti dai vecchi disegni sembra voler far emergere, attraverso il rituale di una dimenticanza razionale, un recupero istintivo della propria creatività. Stracciare i disegni dell’accademia diventa un gesto audace di chi, opponendosi ad una creatività dettata ed imparata, decide di dare spazio alla propria irripetibile inventività. Dimenticando un modo esteticamente corretto di fare arte, Casale ci ricorda che l’immaginazione compare quando si ritrova un contatto più giocoso e semplice con le cose.
Il quadro d’insieme diviene così la topografia di un passato sezionato e ricucito in una nuova trama figurativa del mondo, che mostra quello che Rivière indicava come delle “formazioni sottomarine che il pensiero cosciente incontra ad un tratto e contro cui si squarcia. Un mondo sommerso sul quale non possiamo avere se non scarse e casuali informazioni”[2]. Andare alla ricerca di questa immensità all’interno di noi stessi si traduce, in maniera direttamente proporzionale, ad un’intensità del sentire ciò che è fuori. La grandezza, infatti, progredisce nel mondo nella misura in cui l’intimità si approfondisce.
Michela Di Stefano
[1] J. Brodskij, Less than one. Selected essays, Farrar Straus Giroux, 1986, p. 15
[2] J. Rivière, Proust e Freud, Pratiche, Parma, 1985, p. 61